Come in ogni trompe-l’oeil che si rispetti, l’effetto è dato dalla maestria con la quale l’artista riesce a mettere in rapporto pochi, parchi elementi; ciò che conta per lo scrittore inglese «non è, ancora una volta, la qualità del dettaglio, ma la capacità di costruire un pattern, un edificio di impressioni sequenzialmente mirate a un effetto unificante. «Bastano quattro frasi banali» — sostiene Scialoja riferendo l’inizio del capitolo VII — «e mi vedo davanti agli occhi Bristol; è una questione di ritmo». Non la materia in sé, ma la padronanza dei mezzi stilistici contribuisce a moltiplicare gli effetti pittorici e prospettici, conferendo allo «straordinario poema» l’inaspettato spessore d’una cronaca.
Calvino gli fa idealmente eco non appena sottolinea come la parte più bella del romanzo sia la prima, quando «ancora il meccanismo dell’avventura non è scattato»; ovvero, non appena lo scrittore riesce a riempire «l’attenzione del lettore di qualcosa che va al di là del prevedibile interesse per l’intreccio». A suo parere «Stevenson si trovava, rispetto alla narrativa storico-avventurosa del romanticismo, in una posizione simile a quella di Ariosto e Cervantes, uomini colti e moderni, rispetto alla tradizione esausta della letteratura cavalleresca»; era cioè chiamato a imprimere un’impronta poetica nuova a una memoria letteraria collaudata proprio a partire da quei pochi «ferri vecchi» (gli incipit, i rituali formali, le formule retoriche, le convenzioni di genere) che aveva a disposizione. Ma lo stile cui alludono i due non è da intendersi nel senso disimpegnato e decadente di art pour l’art: il riferimento è invece alla moralità che deriva da quella particolare unione di gioco ed estrema serietà di cui solo i bambini sono capaci.
Di qui i richiami fatti da entrambi al modo in cui lo scrittore inglese si pone di fronte all’infanzia; a parere di Calvino il merito di Stevenson sta nell’aver scovato «l’unico modo di concepire la natura senza farne la parodia, senza distruggerla: vederla attraverso gli occhi di un ragazzo, mettere tra sé e quel mondo lo schermo d’una tensione fantastica infantile». Ovvio notare che in questo caso Calvino parla anche, anzi soprattutto, di sé; ma in questo acuto giudizio critico ritroviamo alcune delle ragioni che avrebbero spinto Scialoja a creare le sue storie di animaletti che «quando parlano sparlano: cioè non sputano sentenze», rivolte — in piena sintonia col suo libro d’elezione, romanzo e poema insieme — tanto all’infanzia quanto agli adulti. Per il poeta-pittore lo stile, la moralità dell’Isola del tesoro consistono nella «spontaneità di amore per la vita, per il bene, la tenerezza per le cose giuste e di orrore per le cose ingiuste». Le analogie con le testimonianze autobiografiche sono troppo evidenti per non guardare a quest’intervista non soltanto come a un ‘autoritratto allo specchio’, ma nella prospettiva più ampia d’una dichiarazione d’intenti: